Ma quale fine
Pubblicato su Sciare magazine, 15 ottobre 2023
Stagioni sciistiche fantastiche e umori neri. Lo sci prospera e noi abbiamo pensieri depressivi. Lo spleen, l’umor tetro, era un sentimento da poeti ottocenteschi, che si scervellavano sulla questione della morte senza venirne a capo, non era certo un sentimento da sciatori, che hanno sempre ragionato sulla curva perfetta, magari anch’essi non venendone a capo, ma avvicinandosi di qual poco a ogni stagione che li ha sempre resi vivi e felici. Eppure anche gli sciatori, come i poeti di due secoli fa, oggi vedono nero.
Vedono nero, perché non c’è giorno in cui non si senta la notizia che lo sci è morto: scioglimento definitivo dei ghiacciai, zero termico a quote in cui manca l’ossigeno, fine delle precipitazioni nevose invernali… conseguente insostenibilità economica di tutto il settore. Ma è vero che lo sci è morto?
Ciò che è vero, perché documento, è che lo sci si pratica da 6.500 anni, gli ultimi 140 anni dei quali trascorsi a emettere referti funebri su ogni cosa fino a scrivere anche quello che riguarda lo sci. Il primo a essere dichiarato morto fu nientepopodimeno che Dio. Lo annunciò Nietzsche nel libro “La gaia scienza”, 1882. Dopo fu la volta della Storia e di tutto il suo indotto: musei, archivi, libri. Lo si apprese in una fredda mattina parigina dal Figarò, 20 febbraio 1909, leggendo un articolo-manifesto di Filippo Tommaso Marinetti. Pochi anni dopo, fu la volta della Verità. Il filosofo austriaco Wittgenstein nel suo “Tractatus logico-philosophicus” (1921) dichiarava che la verità filosofica era morta. In breve ci fu una vera e propria epidemia. Morirono il romanzo (Bretòn, “Manifeste du surréalisme” 1924), la poesia e l’arte (Formaggio, “La questione della morte dell’arte”, 1962), morì la pittura (per colpa dell’arte concettuale), morì il teatro (per colpa del cinema), poi morì il cinema (per colpa della televisione), l’architettura a mattoni (per quel killer di Le Corbuisier, che utilizzava il cemento) e nella musica morì pure la melodia (per opera di quell’altro killer che fu Arnold Schoenberg). Presto il vezzo di gridare al morto passò dal mondo della cultura a quello sociale: nel 1968 morì la figura del padre, poi toccò al matrimonio (1974, referendum sul divorzio), poi morì il figlio (1981, referendum sull’aborto), alla fine degli anni Ottanta, Cioran disse che era morta l’Europa. Qualche anno fa Jeff McMahan, genetista dell’Università di Oxford, dichiarò morto l’antropocentrismo, ovvero l’uomo concepito dal coito, sostituito da un ibrido uomo-chimico generato in provetta, adesso è morto pure l’uomo-chimico sostituito da IA, l’intelligenza artificiale, che a sua volta annienterà l’intelligenza umana da cui pur è nata.
Se anche lo sci muore, beh, non si può dire che non sia in ottima compagnia. Perché in passato, dopo ogni dichiarazione di morte, si è sempre verificata una ripresa eccezionale del caro estinto. Bultam e Bonhoeffer, per esempio, ci hanno spiegato che la morte di Dio, dichiarata da Nietzsche, doveva essere intesa come la morte del Dio “vuoto”, quello invocato per una vittoria nello sport, ma non certo del Dio vissuto con fede sincera. E d’altro canto, dalla morte della Verità Heidegger ha trovato lo spunto per definire la verità come “svelatezza”, offrendoci un’efficacie interpretazione di essa. E così nel ‘68 era morta “la famiglia inferno” (Moravia) ma non la famiglia come legame profondo; nel ’74 moriva il matrimonio prigione, ma non quello felice e solidale; nell’81 moriva il figlio concepito dalla violenza, non certo quello dell’amore. Sarà allora vivace e magnifica la stagione sciistica che sta per iniziare e noi sciatori ce la godremo tutta fino in fondo alla faccia dei beccamorti.
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