Il rapid gate di Dante

Pubblicato su Sciare, novembre 2021

La domanda più grave, esagero, in chiusura di questo anno in cui si sono omaggiati i 700 anni dalla morte di Dante nei modi più bizzarri, non solo libri e seminari sulla vita e sull’opera, ma anche viaggi, feste, cene, degustazioni di vini e di oli danteschi, è: cosa sarebbe piaciuto al Poeta dello sci?

La risposta alla domanda più grave, qui non esagero, è: il palo snodato da slalom. Che Dante avrebbe amato più di ogni altra cosa, se avesse potuto conoscerlo, perché vi avrebbe visto il simbolo supremo dell’essenza dell’uomo virtuoso, quello che Cicerone nel De Officis chiama il “vir bonus”.

Dante affronta il tema dell’uomo virtuoso nel primo canto del Purgatorio. Chi è, si chiede Dante, l’uomo forte. L’uomo solido. Quello su cui si può contare sempre. L’uomo che sa sopportare le fatiche, i dolori, le pene della vita. Chi è l’uomo che propriamente si può chiamare “Uomo”: quello che Cicerone aveva chiamato, con un’espressione semplice al punto di poter sembrare disarmante rispetto a ciò che il suo significato rinvia, “vir bonus”?

Dante si pone questa domanda all’inizio del Purgatorio, perché, della risposta, è lui stesso ad averne bisogno. Un profondo bisogno! Ha appena concluso la scrittura dei 34 canti dell’Inferno. Ci ha impiegato almeno 8 anni, ma forse quasi il doppio, se è vero che ha iniziato la Commedia quando era ancora a Firenze. Davanti a lui ha altri 66 canti da scrivere. Il doppio, meno uno, di quelli che ha scritto. Con quei ritmi servono almeno altri 16 anni. Dante ne ha già compiuti 50. È vero che nel Convivio scrive che l’età perfetta per morire è 81 anni (la perfezione del numero 9 moltiplicato per se stesso), ma per un uomo del medioevo 50 anni è già un’età venerabile. Infatti lui ne vivrà solo altri 6. E in questo breve arco di tempo deve scrivere ancora tutto il Purgatorio e tutto il Paradiso. E, poi, ha anche il problema della lingua. Quella di cui si è servito nella prima cantica, in cui poteva utilizzare espressioni anche triviali, come “ed elli avea del cul fatto trombetta” o “che merda fa di quel che si trangugia”, non potrà più essere la lingua delle altre due cantiche, le quali, l’una, il Purgatorio, ha per ambientazione un’ideazione che risale a pochi decenni prima, 1200 circa, su cui quasi non esistono libri, ragion per cui Dante è costretto a inventarsi quasi tutto; l’altra, il Paradiso, è il regno della pura luce e dello spirito, inesprimibile a parole umane, come lui stesso ammette all’inizio della terza cantica.

Di fronte a tutto ciò, Dante è in crisi. Teme di non farcela. Dopo l’euforia di aver rivisto le stelle all’uscita dal budello infernale, cade in depressione. Si è perso d’animo, non crede più in se stesso. In questo primo canto del Purgatorio, Virgilio ricorda lo stato di “follia” di Dante, che quasi lo aveva portato a vedere “l’ultima sera”. Cioè, addirittura, di esser stato sul punto di procurarsi la morte.

Ma Dante reagisce, ponendosi la domanda più grave: chi è l’uomo che sa affrontare tutto ciò? E Dante si rasserena, trovando la risposta alla domanda più grave, che in chiave sciistica è, appunto, il palo snodato da slalom.

La faccio breve ma è questo che accade: Dante incontra il filosofo stoico Catone, il simbolo della fermezza, dell’inflessibilità morale, il quale, inaspettatamente, dona a Dante un ramoscello di giunco, l’unica pianta che in virtù della sua flessibilità sopravvive ai venti violenti e alle mareggiate impetuose che sferzano la costa del Purgatorio. L’inflessibile offre la flessibilità. Non si tratta di una contraddizione, ma di un completamento. Heidegger direbbe che anche i tornati delle strade di montagna invertono la nostra direzione per portarci in cima al passo; noi sciatori diremmo che anche il rigido palo snodato da slalom si piega, come il giungo, all’impeto del passaggio dello sciatore per poi ritornare immediatamente se stesso, rigido e fisso a indicare il punto di curva, come l’irremovibile Catone.

Ecco allora la lezione di Dante: per essere un uomo propriamente tale si deve essere interiormente inflessibili, come Catone, come l’asta del palo da slalom, ed esternamente, cioè verso tutto ciò che è altro da noi, come le mareggiate che si infrangono sulle coste del Purgatorio o i colpi indiavolati dello slalomista, flessibili, condiscendenti, come il giunco, come lo snodo del palo da slalom, che si piega e poi ritorna uguale a indicare il punto di curva. “Oh maraviglia…” dice Dante parlando del giungo e ritrovando se stesso: “cotal si rinacque/ subitamente là onde l’avelse”; oh meraviglia, questo ritornare se stessi subito e dove siamo stati abbattuti.

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