Il nome della neve

Pubblicato su sciare, dicembre 2016

Forse non è vero che gli eschimesi abbiano tanti modi per chiamare la neve. Che inizino a distinguerla fin da quando è per aria, “Qanik”, da quando è per terra, “Aput”. Sarebbero una leggenda letteraria sia i dieci modi indicati da Hoeg ne “Il senso di Smilla per la neve”, sia gli addirittura novantanove elencati da Harrison in “The last speakers”.
I popoli Inuit e Yupik, che noi genericamente chiamiamo “eskimesi”, vivono in Groenlandia, Alaska, Canada, Siberia e ciascuno ha un proprio dialetto. Non esiste una sola lingua eskimese, ma tanti dialetti, l’uno diverso dall’altro. Ogni dialetto ha il suo vocabolo per indicare genericamente “neve”. Questa varietà di termini non corrisponde, come si è creduto, a nomi-definizioni per i diversi tipi di neve, ma al fatto che i dialetti dei popoli artici sono tanti. A questo punto, dovremmo chiedere scusa agli eskimesi. Li abbiamo sempre considerati raffinatissimi nel distinguere con esattezza la neve, quanto trogloditi nel dover usare un tortuoso giro di parole per indicare il concetto di onestà, di cui non hanno la parola corrispondente. Un mito artico la loro sapienza nivologica, un mito artico anche la loro innata slealtà.
Però, come negare che ci siano tanti tipi di neve? Quando scioliniamo il colore della sciolina che usiamo, funziona da sinonimo di un certo tipo di neve. Verde è la neve freddissima; blu, quella fredda; rossa, quella trasformata; gialla, quella nuova; argento, quella bagnata. L’italiano non ha termini diversi per definire i tipi di neve, ricorre agli aggettivi. Eppure nei dialetti di cent’anni fa ogni neve aveva il suo nome. Mario Rigoni Stern conosceva quelli di Asiago e li elencò: la bruskalan è la neve autunnale, umida, che scende fiacca e che fa interrompere al boscaiolo la raccolta della legna nel bosco; poi c’è la sneea, che è la neve invernale, asciutta e abbondante, la più bella per andare a sciare; la terza neve è l’haapar, la neve delle allodole, che scende quando l’inverno ormai sta per finire, e che diventa haarnust, cioè neve vecchia, ben assestata, buona per fare il fuoripista. La swalbalasneea è la neve che cade quando in montagna è già arrivata la prima rondine. La sesta neve è la kuksneea, la neve d’aprile inoltrato, che arriva con il cuculo, quando esso risale dall’Africa dopo la sua migrazione invernale. L’ultima neve, che non sempre arriva, si chiama bachtalasneea ed è la neve della quaglia, quella portata da una nube che scende improvvisa da nord e che a maggio può far imbiancare i monti. C’è anche un’ultimissima neve, quella dell’estate, la kuasneea, la neve delle vacche, chiamata così perché le sorprende mentre sono al pascolo, privandole dell’erba perché tutto intorno improvvisamente si è fatto bianco e loro affamate muggiscono. La neve estiva era un prodigio e un timore. Per questa ragione probabilmente tutti i santi dal nome ispirato alla neve, Nives, Nevio, ricorrono in estate.
Non sono convinto che i popoli del nord non abbiano avuto termini diversi per i diversi tipi di neve. Credo piuttosto che li avessero e che li abbiano persi, com’è accaduto a noi, che abbiamo preferito, in nome della semplificazione del linguaggio, la vaghezza degli aggettivi alla precisione dei nomi per definire la neve. Dopotutto anche gli eskimesi guardano la televisione, comunicano per sms; soprattutto anche a loro e ai loro figli viene messo in testa che è più importante parlare male l’inglese che bene la propria lingua madre. I nordici non sanno più come chiamare la neve; i nordici nella loro antica e nobile terra, liberata con gli sci ai piedi da Gustavo Vasa, hanno da poco insignito del Nobel per la letteratura, che è l’arte di emozionarci attraverso la parola pura, la parola esatta, un cantante, la cui arte è fatta di musica, di canto e di parole. Non vi pare che vi sia un nesso in tutto questo?

torna alla lista articoli


Leave a Reply