Sergio Zen, sessant’anni di pittura, 1956 – 2016

Pubblicato in “Zen Opera Omnia”, Mediafactory edizioni, 2016

I sessant’anni di pittura di Sergio Zen coincidono con un momento importante della vita culturale della valle dell’Agno e in particolare di Valdagno, luogo in cui Zen è nato, è vissuto e ha dipinto. Il momento, se è possibile esprimerlo attraverso una metafora, è quello di “Marana quando zampilla”. Accade, di tanto in tanto, che il vecchio vulcano della valle riprenda la sua attività, tirando fuori dal profondo delle viscere quei “sassi mori” che altro non sono che i pensieri d’intelligenza sul vissuto della valle e delle sue genti. Fuori metafora, in questi ultimi anni, si sono registrate, con una quantità e un’intensità tale da legittimare l’immagine di una “Marana zampillante”, pubblicazioni decisive sul Novecento valdagnese, quando Valdagno non era soltanto una città ma due, con un’attività lavorativa tra le prime al mondo nel settore della lana e un’attività culturale, con il suo teatro più grande del Veneto e i Premi Marzotto, propria di un grande centro di civiltà continentale. È in questo contesto, di una Valdagno che sta riflettendo con vigore eruttivo sul proprio importante passato, che va letto questo catalogo-repertorio sull’opera di Sergio Zen. Perché l’ottantenne Zen è stato indubbiamente, con l’altro grande artista di Valdagno, Franco Meneguzzo, il pittore della valle nella sua aurea e irripetibile stagione che va, se vogliamo fissarne i termini temporali, dalla costruzione della Città dell’Armonia alla realizzazione del traforo Valdagno-Schio. Ma mentre Meneguzzo, che era di 12 anni più anziano e i cui esordi risalgono alla seconda metà degli anni Quaranta, per soddisfare quegli stimoli culturali che la valle nella sua “età dell’oro” gli aveva fatto conoscere, sente di doverne uscire, Zen, al contrario, avverte che è nella valle che lui deve rimanere per nutrire la sua pittura. Se per il primo, quindi, la continua, caparbia ricerca di un confronto aperto e diretto con le avanguardie metropolitane, lo porta a maturare un rapporto sempre più forte, intimo con la valle, alla quale vi riconosce quella prossimità al Vero che egli esprime, nella sua ultima fase, con i quadri “verdi”, per Zen la valle è il luogo ancestrale da svelare, il suo esserne parte, l’amata a cui non può sottrarsi. E così la valle diventa della totalità della vita, il suo tutto. La valle è il tema assoluto che continua ad autoalimentarsi con una forza vitale e visiva inesauribile, che egli deve salvaguardare da contaminazioni esterne, da etichette di scuola; che deve celebrare con i colori più naturali e spontanei. Se allora per Meneguzzo, la sorveglianza e la consapevolezza critica sul proprio operato sono sempre state massime, per Zen, con altrettanta coerenza alla sua scelta di fondo di rimanere nella valle, è la spontaneità del dipingere il suo valore primo, che egli tutela fin da quei suoi esordi, risalenti alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando iniziò a dipingere i tetti della Rio.
E la Rio è il quartiere della Valdagno “spontanea”. Diversa dalla Valdagno del centro storico, espressione della borghesia cittadina, la quale, però, già nei primi anni del Novecento aveva concluso la sua spinta vitale, tanto che la quasi assoluta maggioranza delle famiglie, che avevano costruito i loro palazzi nel centro cittadino, lasciano definitivamente il paese; diversa anche dalla Valdagno della Città dell’Armonia, quella costruita da Gaetano Marzotto e abitata dalle sue maestranze, progettata ex novo in tutti i suoi aspetti: urbanistici, architettonici, funzionali, la Rio è il quartiere dei valdagnesi: è la Valdagno senza la borghesia settecentesca, senza i Marzotto; la Valdagno “valligiana” che si estenderà fino ai Ponte dei Nori, simile, a nord, a Novale e, a sud, agli altri paesi della valle: Cornedo, Castelgomberto, Brogliano, la Trissino di valle. Della “spontanea” Rio, Sergio Zen ne è l’indiscusso cantore. I suoi quadri figurativi, pochi e solo dell’inizio, hanno la luce e i colori della Rio, che diventeranno i colori e la luce della valle con la scoperta della pittura astratta che lo accompagnerà nei successivi sessant’anni di lavoro.
Conoscere questa lunga militanza d’amore per la valle, questa “militia amoris vallis”, è conoscere la valle, le emozioni ancestrali e le suggestioni della sua “età dell’oro”, ma è anche riscoprirla e riviverla e riappassionarci a essa.

Di questa lunga militanza pittorica si possono individuare quattro momenti: il primo quello “elegiaco”, 1956-1967; il secondo quello dell’”indissolubile gliommero”, 1968-1978; il terzo, “i collage”, 1979-1987; il quarto, “il colorismo panico”, 1988-2016.

1959-1967, il momento “elegiaco”

Zen scopre da subito la pittura astratta, la sua potenzialità cromatica, la libertà formale che esalta il suo talento di pittore spontaneo. Il passaggio dal figurativo all’astratto è, quindi, immediato e felice. Cambia il genere, ma la fonte d’ispirazione rimane la stessa: la Rio o, meglio, quella valle che assomiglia in autenticità alla Rio: i campi resi gialli dall’arsura, le vigne rosse d’ottobre, le colline verdi e bagnate dalla rugiada della notte sono i temi principali delle sue opere.
Zen comprende immediatamente che l’astrattismo, che per lui non sarà mai astrattismo geometrico ma informale, è la via ideale per tradurre su tela quanto egli sente e vede, e da questa sua antica scelta, non verrà mai meno in tutto il suo percorso artistico.
I quadri degli anni Cinquanta e Sessanta sono, come egli scriverà nei suoi “taccuini” d‘arte, fatti con i colori della natura della valle. Hanno quella luce, quella naturalezza, quel vigore. C’è gioia, allegria, felicità. Ogni tela è un canto d’amore, un inno alla valle. Ma al tempo stesso c’è anche sofferenza e tormento, quelli speciali, che originano dal troppo amore.
Per primo Salvatore Fazia, in un saggio del 1968, ha individuato il tono elegiaco di questo dipingere. La sua pittura evoca il tempo, ha scritto Fazia, “delle lunghe giornate panoramiche sopra il paese-città o delle favolose ore incerte e corteggiate tra i giri delle ultime case… tra contrade, spiazzi e pergolati, di orti e terminali rapsodicamente evocati. Qui erano le sedi dei convegni infantili, i campi di battaglie di bande, le arene dei lunghi conversari…”. Non si tratta, però, di nostalgia per una adolescenza felice e irrimediabilmente perduta. Zen non dipinge il passato, ma il presente. E il suo è quello segnato dal continuo innamoramento e rinnamoramento per la valle. Che è la sua donna, la sua passione, la sua incurabile debolezza, la sua emozione, la sua stessa poesia, pittura e arte. Come il poeta elegiaco è schiavo dell’amata, lui lo è della valle. È un amore totalizzante. Che lo imprigiona, ma dal quale non può liberarsi, pena la fine del suo stesso dipingere. Felicità e sofferenza. Ragione di vita e tormento di vita.
Immerso nella sua arte-passione, Zen, pittore-amante, vive isolato, autoescludendosi dalla società artistica e civile. Gli altri artisti non possono condividere il suo servitium amoris vallis, né lui può condividere con loro un mondo che non gli appartiene. La valle gli è autosufficiente, essa è il modello del mondo, al di fuori di essa niente esiste. Ma il grande amore fa anche soffrire e l’elegia è sofferenza. L’amata non corrisponde mai il suo amante come egli vorrebbe. E poi anche l’isolamento, che ella impone, provoca pene. Uscirne, però, significherebbe perdere la propria purezza, come liberarsi dalla sofferenza, cioè guarire dalla passione amorosa per la valle, equivarrebbe, addirittura, a smettere di dipingere, e l’una e l’altra sono scelte impossibili. Zen ne è consapevole: sa che la sofferenza d’amore dà più autenticità e verità alla sua pittura.

1968-1978, Uscire dall’elegia, il periodo dell’”indissolubile gliommero”.

A un certo punto, tuttavia, è la valle che cambia. L’amata improvvisamente impone un nuovo registro. Il 19 aprile del 1968, a Valdagno, viene abbattuto il monumento a Gaetano Marzotto senior e frantumate le vetrine della Rinascente. È tra le primissime agitazioni del Sessantotto in Italia e lo sarà anche d’Europa. Il cosiddetto “maggio francese” degli studenti della Sorbona accadde un mese dopo. In Europa come in America s’impone l’impegno politico e sociale come etica civica. Anche l’arte non può esserne immune. A Valdagno, poi, c’è la grande fabbrica con le migliaia di persone che vi lavorano. Zen conosce bene quella realtà perché vi fa parte. La fabbrica con le sue dinamiche e le rivendicazioni operaie diventano il centro di tutto. Nella pittura di Zen appariranno fin dal 1967 le tracce di questa nuova tensione sociale, che, l’anno dopo e poi sempre in modo più marcato, assumeranno la forma di un irrisolvibile gliommero. Non vi sono più le vigne, i colli e i cieli dell’amata valle, ma un angosciante gomitolo, parto della fabbrica e della valle. Sono gliommeri nei quali, come nei gliommeri quattrocenteschi del Sannazzaro, tutto si affastella: fabbrica e natura; politica e poesia; impegno e fantasia; vecchie e nuove storie. Per undici lunghi anni, per oltre 60 CFR opere, il gliommero domina assoluto i quadri di Zen. Non basta il ricorso ai colori del periodo elegiaco e, talvolta, l’utilizzo dei titoli di sempre: “paesaggio”, “campo”, “estate”, “cielo e vigna”, “vigna e luna”, per trovare il bandolo della matassa e dipanarne il groviglio. Esso rimane imperioso e assoluto. Angosciante. Nemmeno la consapevolezza, registrata nei “taccuini”, di possedere “una natura fondamentalmente lirica”, che lo porta alla dichiarazione di non poter fare “a meno della natura, della poesia, dei sentimenti”, sa risolverne il caso.

1979-1987. Il collage, dal gliommero alla stoffa.

Sarà la scoperta di una nuova tecnica a far uscire Zen dal suo più tormentato periodo. È straordinaria anche la modalità di questo passaggio. Il gomitolo finalmente si dipana e si fa tessuto. Non è ancora tela, ma alla tela esso può aderirvi nella soluzione del collage. “Copro”, scrive nei taccuini, “le zone dipinte con dei collage di tela sottilissima: è una ruvidità cercata, come se fosse un’altra tela”. C’è sempre la Fabbrica di gomitoli e tessuti sullo sfondo. La nuova tecnica lo fa immergere nuovamente nella pittura, “manipolare (tela su tela) mi fa sentire più vicino all’opera”. Ovvero a se stesso, alla sua vocazione e al suo talento di pittore “spontaneo”. Questa nuova tecnica lo appaga in pieno sotto l’aspetto formale, permettendogli di riprendere il suo antico amore per la valle-natura. “Aria immensa, grandi spazi, blu sopra blu”. Zen torna a essere pienamente se stesso. “Erano molti anni che non si vedeva un gennaio così limpido, pieno di sole. Tutti i giorni vedo blu e giallo sopra le colline”. Ha capito che la ragione della sua pittura è il colore, “sono nato nel colore, il colore è dentro di me”. Il colore che gli viene dal suo modo speciale di vedere la valle. Scrive “dipingere è dichiarare il proprio amore”.

1888-2016. Ritorno alla pittura, l’elegiaco diventa panismo.

Un po’ alla volta il collage lo riporta alla pittura, quella immediata, spontanea di trent’anni prima, quella della “Rio”. Tornano così i prati e i cieli della valle-amante. Dal 1988 a oggi è un continuo inno d’amore gioioso alla valle. “Benvenuto, autunno: oggi sei un bel giallo nella corrente”. Trionfo della natura; trionfo del colore. Adesso, però, è un amore per la valle diverso. Si è sopita la sofferenza per l’isolamento imposto dalla militia amoris e si è anche attenuato il tormento per la valle-amante che non corrisponde il suo pittore-amante riconoscendolo nei termini che egli desidererebbe. Dalla passione carnale del tempo dell’elegia, l’amore si è fatto angelico, esperienza mistica. Uomo e natura, pittore-amante e valle-amata sono in un sentimento di gioiosa comunione. Carla Chiara Frigo nel 2001 per prima individuò lo stato panico dell’ultima pittura di Zen: “una visione che non ha più necessità di rimandi e analogie con i profili collinari o le distese paesistiche o altro ancora, ma (…) suscita (…) uno stato panico di fusione con il respiro del colore stesso come respiro nostro e dell’Universo intero”. L’infinito amore per la valle ha raggiunto la sua piena maturazione. La sua pittura si è fatta silvana e celeste. La valle è l’universo tutto. E la sua pittura ci apre ai cieli.

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