La partita maledetta

Pubblicato su Sportivissimo, aprile 2013

Fu quasi certamente a Roma che il Caravaggio imparò a giocare con la racchetta. Con un suo amico, Antonio da Bologna, di professione soldato di Castello, si divertiva a sfidare il bel mondo nei giardini di palazzo o nei campi adiacenti.
Roma nei primi anni del Seicento era la città più stravagante del mondo. Piena di osterie e piena di chiese; piena di popolani e piena di cardinali; piena di libertà ma anche di rigore imposto dalla Controriforma. Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, il pittore che sarebbe diventato uno dei massimi geni dell’arte italiana, conviveva con questa doppia realtà. Come pittore non poteva che proporsi alla Roma dei cardinali, dell’aristocrazia pontificia, delle grandi fabbriche sacre. Come uomo e come artista era attratto dalla Roma popolare delle osterie, delle prostitute, dei nuovi giochi sportivi. Aveva tra i venti e i trent’anni. Vi era giunto dopo quattro anni passati nella bottega milanese del bergamasco Simone Peterzano, dove aveva conosciuto la grande arte lombarda del
Quattrocento (Foppa, Borgognone) e del Cinquecento (Lotto, Moretto, SavoIdo, Moroni). Quando giunse a Roma, Caravaggio, sebbene fosse giovanissimo, era già un notevole pittore, colto, tecnicamente maturo, geniale. E vivace, forse anche troppo vivace. Un biografo, nel 1672, lo descrive con il volto scuro, con gli occhi foschi, le ciglia e i capelli neri come lo era l’umore altrettanto cupo, fosco e nero.
I dieci anni romani sono tutta la vita del Caravaggio: qui dipinse le tele che segneranno
per sempre la storia dell’arte, qui commise l’errore che segnerà per sempre la sua esistenza. A Roma viveva giornate intense. La notte rincasava tardi e alla mattina a svegliarlo era Conacchia, un cane barbone nero a cui si era particolarmente legato. Poi per quattro, cinque ore stava a dipingere, tra balconi semichiusi e riflessi di specchi, “quelle cose naturali”, sono sue parole, che i contemporanei stenteranno a riconoscere come una tra le più grandi intuizioni della storia dell’arte.
Verso il calar del sole, quindi, usciva per le vie della città tra donne … la bardassa che abitava dietro a Banchi, Lena, Laura e sua fìglia Isabella, l’affittacamere” e osterie, con amici di ogni ceto e nazione. Erano pomeriggi pieni di vita e notti vivaci di schiamazzi, di parolacce, di piccoli reati, come il porto d’armi dimenticato, di sassate all’affittacamere gelosa, di brevi arresti. Fu in un pomeriggio di questi che accadde il fattaccio. Era domenica 29 maggio 1606. Caravaggio aveva lavorato molto nei mesi precedenti e le cose gli erano andate decisamente male. Molte delle sue opere che i posteri riconosceranno tra le più significative, gli vennero respinte. “La Madonna della serpe”, commissionata per l’altare dei palafrenieri in San Pietro, non venne accettata dalla commissione cardinalizia. E de “La morte della vergine” venne addirittura vietata la visione. L’arte di dipingere le cose vere, fuori da ogni accademia, di dipingere tanto le figure quanto le cose, i fiori o i frutti, non trovava comprensione dai suoi committenti. Mentre il Pomarancio o lo stesso Baglione, pittori di assai meno valore, ottenevano la Croce di Cristo che il D’Arpino, suo più antico emulo, aveva già ottenuto da ben sei anni, Caravaggio, con l’orgoglio a pezzi e la rabbia a mille, si portava da un campo di gioco all’altro sempre pronto ad attaccar briga e ad azzuffarsi con chiunque.
Quella domenica del 29 maggio a peggiorare i fatti con lui c’era il “capitano”, quell’ Antonio da Bologna che era il più violento tra i suoi amici. Si giocava alla racchetta nel campo vicino all’ambasciata di Toscana. A sfidarli fu un certo Tanuccio da Terni.
In palio, oltre all’onore, che per il Caravaggio fu sempre un valore supremo, c’erano dieci scudi per la squadra vincitrice. Il gioco fu duro, la partita tesa. Caravaggio stava, a detta di uno storico, perdendo o forse aveva già perso. Secondo un altro storico, meno malevolo, la rissa sarebbe sorta per un punto contestato. Che stesse perdendo o quasi è più che probabile. Che non accettasse di perdere al gioco per quello che considerava un giudizio sbagliato, come nella vita artistica gli stava accadendo a vantaggio di chi sapeva ammiccarsi i potenti meglio di lui, è certo. Fu subito diverbio, poi volarono le racchette a cercar la testa altrui anziché la pallina. Quindi s’impugnarono le spade. Da una parte Caravaggio e Antonio, dall’altra Ranuccio e il suo paggio. Cadde morto Ranuccio, arrivarono i soldati del papa che subito arrestarono il compagno di Caravaggio. Lui, chissà come, riuscì a fuggire. A Roma non poteva più stare, lo cercavano ovunque. Fu processato in contumacia e condannato a morte. Si rifugiò vicino a Palestrina, mentre tutti lo credevano a Firenze o a Modena. Quindi si nascose a Napoli, la città più caravaggesca di tutte. Il 14 luglio del 1608, per quegli strani accadimenti della storia, gli venne conferita la croce dell’Ordine di Malta per i suoi meriti artistici. Nessuno se l’aspettava, tanto meno lui. Fu una soddisfazione fugace. Appena giunto nell’ isola ebbe un duro diverbio con un cavaliere e anziché esser ricevuto con tutti gli onori a palazzo, fu incarcerato. In modo rocambolesco riuscì a fuggire e, dopo una breve sosta in Sicilia, riparò nuovamente a Napoli. Il 18 luglio del 1610 ad appena 37 anni, stremato dalle continue fughe, durante le quali non giocò più alla racchetta, nel tentativo di poter ritornare a Roma, morì di stento e senza cure a Porto Ercole dove in un luogo vicino fu seppellito. Nell’ “Avviso” del 31 luglio di quell’anno due notizie lo riguardavano: in una si apprendeva il condono della pena capitale, nell’altra compariva l’annuncio della sua morte. L’ultima contraddizione della vita difficile di un genio.

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