La Civiltà del saluto e del buon augurio

Pubblicato su Marana York, aprile 2013

Dieci anni fa, più o meno, usciva la mia antologia sui brindisi della letteratura, della musica e dell’arte. Un excursus attraverso il tempo che iniziava con il brindisi pronunciato nel poema di Gilgamesh alla fine del quarto millennio avanti Cristo nell’antica Babilonia e finiva con i brindisi borghesi del romanzo europeo novecentesco, passando per i più celebri brindisi musicali come quelli del Don Giovanni di Mozart e della Traviata di Verdi, a quelli altrettanto noti del Bacco di Michelangelo, di Caravaggio, fino al brindisi gioioso dell’autoritratto di Rembrandt. Un cono temporale lungo quasi tutta la storia della nostra cultura attraverso il quale il brindisi è stato, pur con mille varianti, straordinariamente sempre se stesso: un invito a innalzare la coppa verso l’alto per un bere non collegato alle necessità del corpo ma dell’anima. Attraverso il gesto del brindare gli uomini di cinque millenni, di oriente quanto di occidente, di meridione e di settentrione si sono offerti reciproca salute, ovvero reciproca salvezza nella disperata coscienza della nostra vita morente. Il brindisi, quindi, con l’ancor più quotidiano atto di dirsi “buongiorno”, “buonasera”, “buonanotte” è il gesto fondante della nostra millenaria Civiltà del saluto e del buon augurio. Una civiltà straordinaria e trasversale perché multireligiosa, perché supera i confini linguistici e politici, le diversità razziali e le barriere sociali. Una civiltà registrata fin dalle più antiche testimonianze letterarie e che è viva ancora oggi. “Salute”, “salve”, “buongiorno”, “buonasera”, “buonanotte” nascevano in un tempo in cui la morte era una presenza quotidiana e il salutarsi, il brindare era uno dei modi per esorcizzarla. Da allora, sebbene forse molti hanno dimenticato il significato profondo del salutarsi e del brindare, il primo inscrivendolo tra le cosiddette buone maniere e il secondo tra i riti effimeri della società moderna, questi due gesti non hanno mai perduto il loro alto significato simbolico. Ci salutiamo, alziamo le coppe al cielo ancora in tutta la nostra fragilità di esseri viventi, in tutta la nostra solidarietà di uomini e donne sospesi che cercano l’uno nell’altro il rinnovo di quella concordia umana che è stata la prima ragione della nostra sopravvivenza e del nostro divenire. Nel più antico brindisi che la letteratura ci ha tramandato, il selvaggio Enkidu, amico di Gilgamesh, che beveva solo l’acqua dei ruscelli e il latte degli animali selvatici viene introdotto nella civiltà proprio attraverso un brindisi: “bevi il vino, è l’uso del paese”, gli si dice. Da allora abbiamo brindato in tutti i modi possibili, seduti come Rembrandt o in piedi come nel sonetto di Alfieri, levando alto il calice come nelle scene corali di Jordaens o danzando come la Baccante romana, oppure come Caravaggio e Velazquez, tenendo coppa e calici bassi; abbiamo brindato facendo tintinnare i calici come Shakespeare, e nelle fumose taverne dei goliardi con persone di altri paesi, come i marinai di Ramusio; abbiamo brindato alla dea fortuna, come gli antichi, all’amico, come Orazio, al futuro come tutti. Chi conosce il vino, sentenzia Rabelais, conosce la parola trink! E così è ancora oggi: nel brindisi festoso tra amici come nel brindisi sportivo per la vittoria, l’invito a innalzare le coppe è la nostra preghiera laica alla vita, al tempo felice e al suo rinnovarsi. Brindiamo affinché l’esistenza continui a essere una corsa felice verso la prosperità, il benessere, il miglioramento di sé e di tutti. E’ questo lo spirito della nostra millenaria e immortale Civiltà del saluto e del buon augurio, cui dà il suo importante contributo anche Arnaldo Fusinato (Schio 1817 – Milano 1888) con il suo brindisi: il suo concedo sia anche il nostro: sul vostro cammino di uomini si eternino le rose, la gioia sia sempre nelle vostre belle persone, per ore di vivacità e di festa.

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