Sport Society

Pubblicato su Sportivissimo – settembre 2007

Chissà, forse anche Enzo Ferrari, quando iniziò il commercio delle sue automobili sportive, avrà pensato di venderle tra tute da ginnastica e palloni da calcio! E forse la stessa cosa dev’essere passata per la testa anche ai maestri orologiai svizzeri, quando decisero di non produrre più i vecchi cipolloni da taschino ma i nuovi, sportivissimi cronografi dai nomi ancora più sportivi; forse – chissà! – avranno pensato di farne pochi pezzi e magari a prezzi modici per il ristretto mercato di atleti e di ex atleti. E lo stesso ragionamento, allora, devono averlo fatto anche le aziende di vestiti, quando qualche pazzo stilista s’inventò il casual, ovvero l’abito sportivo. Magari – chissà! – avranno pensato di vestire un paio di generazioni di quindicenni, bene che gli andasse. Sto evidentemente prendendo in giro chi si ostina a relegare lo sport ai bordi della società, tra le attività poco importanti, poco nobili, e non vuole capire (o non ce la fa a capire) che è proprio lo sport, invece, il minimo denominatore comune sociale; che è proprio la passione sportiva ad avvicinare tra loro le persone, a dar loro un argomento di dialogo, un’occasione d’incontro e di amicizia nella differenza degli interessi culturali, delle professioni, del pensiero politico, perfino dell’età. Un’aggregante, come dicono i sociologi, assolutamente trasversale. E oggi “sportivo”, come aggettivo, è sinonimo di dinamico, moderno, bello, sano, vincente. Eppure c’è ancora chi si ostina a considerare lo sport come se fossimo nell’Italia retrograda del primo dopo guerra, quando si finiva il militare con la panza e si era vecchi, cadenti e sfatti prima dei quarant’anni. E’ sufficiente vedere una foto della liberazione di Roma del ’45: gli americani sulle jeep sembravano i figli delle pari età italiane che sventolavano il fazzoletto dal marciapiede. Ma c’è un esempio ancora più calzante. Quando Eugenio Scalfari e soci fondarono il quotidiano La Repubblica, al fine di realizzare un giornale che fosse di alto livello (c’è il pensiero di Croce, qui, ma è un mio parere!) non vollero inserire lo sport e non fecero neppure l’edizione del lunedì, perché il lunedì era il giorno più volgare della settimana proprio perché gli italiani parlavano solo e soltanto di calcio e tutti avrebbero comperato solo e soltanto la Gazzetta rosa. Poi, si sa come è andata: Scalfari e soci si misero a guardare i numeri (e se ne fregarono di Croce e del suo purismo, ma questo è un mio parere!) Repubblica uscì anche il lunedì e parlò di sport e tanto e del vile calcio e tanto, come un qualsiasi altro giornale. Era evidente: al di là delle convenienze economiche, lo sport era potentemente entrato nella nostra vita di tutti i giorni. Non eravamo più contadini, anche se continuiamo a dividere il giorno alle dodici come se ci alzassimo ancora alle cinque del mattino; e non eravamo neppure più figli della società industriale con il sogno dell’utilitaria, del frigo e della tv. Eravamo diventati invece tutti sportivi e di conseguenza la nostra stessa società è diventata una società sportiva: le auto più belle sono sportive (e oggi la sportiva Porsche sta per acquisire il 50% della popolare Volkwagen); gli orologi più ricercati sono sportivi; gli abiti più indossati senza limiti d’età sono sportivi: l’idea stessa di armonia del corpo, per le donne quanto per gli uomini, è sportiva. E, secondo questo giornale, sportiva, lo è pure l’anima e la sua bellezza.

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